Utente:Elisa zugno/Sandbox

Il termine giapponese "junkanbun" (純漢文, letteralmente “scrittura cinese pura”[1]) indica la produzione di iscrizioni e testi in lingua cinese classica fra il I e l'VIII secolo d.C.

La definizione “cinese classico”, attualmente identificato con la lingua cinese antica, viene utilizzata per indicare la lingua e la scrittura usate in ambiente di corte non solo in Cina, ma anche in numerosi paesi dell'Asia Orientale. Dal punto di vista politico, sociale e culturale, molte regioni asiatiche si svilupparono in epoca più tarda rispetto alla Cina, e assunsero questo paese come modello ideale da seguire sotto molti aspetti, fra cui quello della scrittura. Nel caso del Giappone, per secoli "scrivere" significò solo ed esclusivamente "scrivere in cinese", unica lingua di cui era conosciuta la forma scritta.[2]

L'introduzione della scrittura in Giappone

I giapponesi conobbero la scrittura piuttosto tardi, e assunsero questa tecnica direttamente dalla Cina. I contatti fra questo paese e il Giappone risalgono al I secolo d.C. e sono documentati nelle cronache dinastiche cinesi come lo Shan Hai Jing e nel Han Shu, nei quali si fa riferimento a un paese ad ovest chiamato Wo.[3] [4] Sebbene i caratteri cinesi siano giunti precocemente in Giappone, fin dai primi secoli dell'era cristiana, il loro utilizzo effettivo si colloca diversi secoli dopo: si ritiene che essi inizialmente non fossero usati in modo corretto e che il loro significato non risultasse del tutto chiaro. Vennero considerati in mera accezione ornamentale fino al IV-V secolo, periodo nel quale un certo numero di testi, soprattutto di matrice buddhista, giunse in Giappone dalla penisola coreana. L'utilizzo consapevole dei caratteri cinesi da parte delle popolazioni native avviene a partire dal V secolo, con l'intensificarsi delle relazioni e dei commerci con la Cina e la Corea.[5]

Kinsekibun

I primi reperti in Giappone che attestano l'uso di iscrizioni provengono per lo più dal continente o sono prodotti da persone immigrate. Uno dei più antichi kinsekibun[6] (金石文), iscrizioni prodotte su pietra e metallo, risale al I secolo d.C. Rinvenuto nel 1784 nella provincia di Nagasaki, nota per il suo porto aperto ai commerci con il continente, è un sigillo in oro che si ritiene sia stato donato al signore del regno di Nakoku dall’imperatore cinese Guangwu nel 57 d.C.[7] Una spada risalente al II secolo è stata ritrovata all'interno di un kofun nella cittadina di Ichi no moto. La shichishitō (七支刀, "spada a sette punte") che attualmente si trova nel tempio shintoista di Isonokami, a Tenri (provincia di Nara) fu forgiata nel 369 e riporta un’iscrizione di 61 caratteri.

I primi manufatti che attestano un nuovo e più consapevole utilizzo dei caratteri cinesi risalgono al V e al VI secolo e si trovano anch’essi su spade estratte da tombe kofun. Le più antiche sono quelle provenienti da Inaridai, Eta Funayama, Inariyama e Okadayama. Un altro esempio è rappresentato da uno specchio di bronzo conservato nel tempio Suda Hachimangū, databile intorno al VI secolo.[8]

I kinsekibun di manifattura precedente alla fine del periodo Nara sono meno di un centinaio e sono considerati preziosi reperti utilizzati sia per lo studio della lingua giapponese antica che per la comprensione di vari aspetti della civiltà che veicolano. Solo a partire dal XVII secolo vennero però analizzati come tali da studiosi come Tokugawa Mitsukuni (1628-1700), Matsudaira Sadanobu (1759-1829), Kariya Ekisai (1775-1835) e Kizaki Aikichi (1865-1944).

Replica della Spada a Sette Punte

Diffusione della scrittura

Nel V secolo, attraverso le ambascerie inviate nel continente, comincia un afflusso più o meno regolare di testi scritti in lingua cinese. La maggioranza giunge attraverso la penisola coreana, in particolare dal regno di Paekche, che svolge un ruolo di via intermediaria e di filtro culturale. La vittoria del clan Soga nel 587, seguita a un periodo di disordini nella penisola, segna l'inizio dell'introduzione del buddhismo in Giappone.

A partire dal VI secolo si assiste ad una maggior diffusione della scrittura. Reperti rinvenuti nelle province lasciano pensare che in quel periodo i caratteri cinesi comincino a essere conosciuti anche al di fuori dell’area della sede governativa. Inoltre, se fino al VI secolo le testimonianze consistevano prevalentemente in testi di matrice buddhista, dal VII secolo giunsero nell’arcipelago anche scritti di carattere amministrativo.

La scrittura non è più intesa come un elemento puramente decorativo, ma diventa un veicolo di contenuti trasmissibili in modalità diversa dalla tradizione orale.

La prima ragione per cui i kanbun furono utilizzati in modo consapevole, come già visto nei mokkan, fu quella utilitaristica. Considerando lo sviluppo dello stato di Yamato tra il V e l’VIII secolo, a essa venne presto ad aggiungersi un utilizzo socio-politico. La trasformazione istituzionale basata sul modello cinese vide infatti la formazione di una corte basata su uno stato centralizzato con a capo un clan di discendenza divina[9] che governa tramite un sistema di leggi scritte. Di fondamentale importanza fu la fondazione della città di Nara (che definì l’omonimo periodo, dal 710 al 794), su esempio di Chang'an, capitale della dinastia Tang[10] cinese. Le piante delle due città erano concomitanti sotto più aspetti: dalla presenza della corte sul lato nord alla suddivisione in specifici quartieri. Inoltre, il terreno sul quale sorse Nara rispettava canoni adeguati sotto l’aspetto della geomanzia (o divinazione) cinese. La nuova città divenne...... Cosa c'entra con la scrittura????

«...la metropoli, il centro amministrativo, la casa delle arti e la Sacra Visione del Buddhismo»

Shōsōin Tōdai-ji

L’utilizzo della scrittura cinese ebbe quindi uno scopo estremamente pratico sia come mezzo efficiente per intrattenere rapporti con l’estero che come strumento per formattare (??) in modo efficace l’organizzazione statale. Un chiarissimo esempio ne fu la stesura del Jūshichijō kenpō (il Codice, o Costituzione di 17 articoli)[11] composto nel 604 in kanbun, resa necessaria dal sistema ritsuryō. Inoltre, attualmente nello Shōsōin (la casa del tesoro del Tōdai-ji) sono conservati oltre 12.000 documenti di inizio VIII secolo, testimonianza della ricca produzione scritta del periodo.[12]

Un aspetto interessante dell’uso del kanbun in Giappone riguarda la presenza di magana, o man'yōgana[13], fin dall’inizio del V secolo. La pratica non si discostava dalla tradizione classica cinese: l’aspetto prevalentemente contenutistico dei caratteri rendeva ardua la trascrizione di nomi propri, al che l’utilizzo dei caratteri ad uso esclusivamente fonetico era una strategia in uso da tempo, sia in Cina sia nella penisola coreana.


Mokkan

Nel Sui shu (cronache della dinastia Sui), fra il 636 e il 656, riferendosi alle popolazioni giapponesi è riportato:

«...non hanno la scrittura. Soltanto incidono il legno e annodano corde, ma da quando hanno cominciato a onorare la Legge del Buddha, avendo richiesto dallo stato di Paekche i sūtra buddhisti, hanno iniziato a usare i caratteri.»

L’accenno “incidono il legno” si riferisce ai mokkan 木簡, tavolette di legno sulle quali venivano tracciati i caratteri in inchiostro. Sottili e lunghi tra i 10 e i 25 cm[14] e larghi 2 o 3 cm, sono probabilmente di origine cinese. I più antichi risalgono alla prima metà del VII secolo e sono stati ritrovati a Sakatadera, ma la maggior parte sono databili fra la seconda metà del VII e l’VIII secolo.

Mokkan del periodo Han

I mokkan venivano utilizzati per diversi scopi: come etichette, per esercizio della calligrafia, per impartire ordini a subalterni, come permessi, come registri commerciali, per tener note e così via. Alcuni erano anche utilizzati per annotare la raccolta delle tasse. Con la varietà dei loro usi, si riscontra un ulteriore aspetto particolarmente interessante delle iscrizioni lignee: non erano prodotti solo ed esclusivamente da funzionari, ma anche da persone comuni, ovvero da uno strato di popolazione non elitario.

Lo stile di scrittura utilizzato sui mokkan poteva variare dal kanbun 漢文 (caratteri cinesi) allo hentai kanbun 変体漢文 (kanbun modificato), con ampie concessioni compiute prevalentemente a fine di praticità, possibili grazie alla mancanza di ufficialità dei loro contenuti. La scrittura rappresentata rispecchia in numerosi casi elementi della lingua autoctona e per le produzioni di tardo VIII secolo si possono notare influenze di testi ufficiali scritti in hentai kanbun, come nel caso del Kojiki.

A partire dal 1961 furono ritrovati molti mokkan. Il primo luogo in cui furono dissotterrati fu Heijōkyō[N 1] e per l’anno 1990 ne furono recuperati oltre 100.000 da oltre 300 siti archeologici differenti, fra i quali Asuka Kiyomihara no Miya, Naniwakyō, Fugiwarakyō, Nagaokakyō e Dazaifu.[15]

Produzione di testi in junkanbun in Giappone nell'VIII secolo

Durante l’VIII secolo il Giappone presentò non solo l’utilizzo del kanbun legato a brevi iscrizioni, ma vide la nascita di intere redazioni scritte tramite l’utilizzo della lingua cinese.

La prefazione del Kojiki, presentato alla corte nell'anno 713, con i suoi 1105 caratteri, costituisce l’incipit del primo dei tre maki (o libri) ed è scritto in junkanbun. Questo è l’unico caso di lingua strutturalmente e storicamente consolidata presente nell’opera: il sistema di scrittura utilizzato per l’occasione da Ō-No-Yasumaro è il cinese classico. Il compilatore non si limitò a utilizzare la lingua solo da un punto di vista grammaticale, ma ne carpì anche numerose accezioni tradizionali: lo stile è chiaramente un tentativo di emulazione dei classici cinesi sopraggiunti nell’arcipelago sia in epoca contemporanea che nei secoli precedenti.[16] Un passaggio esemplificatore di questo concetto è il seguente, che ha per soggetto l’Imperatrice Genmei:

«Sua altezza ai cui piedi oggi mi prostro illumina il regno in armonia con il cosmo spandendo dalla reggia la propria influenza fino ai più lontani confini del paese. Il sole brilla, le nubi si disperdono, giungono continuamente notizie di segni favorevoli, come rami intrecciati e doppie spighe. Tributi da regioni assai distanti si accumulano. La sua fama e la sua virtù sorpassano gli esempi della tradizione.»

Un'altra produzione degna di nota è senz’altro quella dei fudoki[17], compilati per volere imperiale a partire dall’anno 713. Solo cinque sono giunti a noi in forma sufficientemente intatta,[18] tuttavia si hanno più di quaranta frammenti di altre province. Il loro contenuto era molto vario e poteva oscillare da storie antiche a registri di risorse minerarie, da elementi di topografia a leggende locali. I fudoki riprendono uno stile non completamente dissimile da quello del Kojiki: anch’essi vedono l’impiego di tre differenti tipi di scrittura, nello specifico del junkanbun per quanto riguarda la maggior parte del testo, dello hentai kanbun in alcuni passaggi e del man'yōgana per i componimenti.[19]

Un’altra opera di fondamentale importanza per la produzione in cinese classico dell’epoca fu il Nihon shoki, o Nihongi, ovvero “Cronache del Giappone”. Fu presentato alla corte nell’anno 720.

Imperatore Temmu (631-686)

Come per il Kojiki, sembra che la prima fase della compilazione sia riconducibile all’ordine che l’Imperatore Temmu impartì a numerosi nobili nell’anno 681, ovvero annotare cronache antiche provenienti da diverse parti del Giappone. Complessivamente, sembra che i compilatori furono una dozzina. Nel Nihon shoki la struttura narrativa scelta differisce ampiamente da quella del Kojiki. In quest’ultimo si può ritrovare una narrazione fluente e continuativa, nella quale ogni episodio è riportato una sola volta. Contrariamente, nell’opera successiva si trovano numerose versioni del medesimo racconto, oltre a un’annotazione più attenta dal punto di vista storiografico. Questi elementi lasciano intravedere una differenza sostanziale non solo in termini stilistico-contenutistici, ma anche nelle cause che ne hanno originato la redazione, tanto più se si considera che il Nihongi è scritto interamente in junkanbun, ricalcandone anche l’aulico ed elegante stile narrativo.[20]

Falsi storici

Ritratto di Hirata Atsutane

Nei circoli nazionalisti del Giappone del XVIII secolo si ipotizzò l'esistenza di una forma di “scrittura primordiale” esistente in epoche arcaiche finalizzata alla stesura della lingua vernacolare, o autoctona. Si arrivò addirittura a definire queste supposte produzioni jindai moji (scritti dell’epoca degli dei).

Nonostante quest’idea fu ridicolizzata sia nell’immediato sia nei decenni successivi, nel 1819 Hirata Atsutane (1775-1843) si spinse fino alla pubblicazione di esemplificazioni di caratteri primordiali, fornendone inoltre una notazione fonetica. Tuttavia, ben presto si rivelarono semplicemente delle derivazioni della trascrizione hangŭl,[N 2] come testimoniò il suo contemporaneo Ban Nobutomo (1773-1846) nel Kana no motosue.[21] Contrariamente, è ormai appurato che la Cina sia una delle tre regioni[N 3] nelle quali la scrittura si è sviluppata in modo completamente indipendente, partendo da caratteri, oggi definibili come pittogrammi, che rappresentavano elementi naturali e che erano tracciati su oggetti utilizzati per pratiche divinatorie, come ossa e gusci di tartaruga.[22]



Note

Bibliografia

  • Donale Keene, Seeds in the Heart. Japanese literature from Earlier Times to the Late Sexteenth Century, New York, Henry Holt and Company, 1993.
  • Peter Francis Kornicki, Languages, Scripts, and Chinese Texts in East Asia, Oxford, Oxford University Press, 2018.
  • George Sansom, A History of Japan to 1334, Stanford, Stanford University Press, 1958.
  • Aldo Tollini, La scrittura nel Giappone antico, Venezia, Libreria Editrice Cafoscarina, 2005.
  • Ō-No-Yasumaro, Kojiki. Un racconto di antichi eventi, a cura di Paolo Villani, Venezia, Marsilio Editori, 2006.

Voci correlate


Errore nelle note: Sono presenti dei marcatori <ref> per un gruppo chiamato "N" ma non è stato trovato alcun marcatore <references group="N"/> corrispondente